Dalla NBA al parchetto sotto casa, gli ambienti sportivi e il loro impatto sull'intimità di chi gioca
Non c’è sport al mondo che possa esser definito tale senza le persone. Persone che lo praticano, persone che lo amano, persone che lo seguono e lo supportano in maniera più o meno diretta: lo sport è fatto di esseri umani. E quindi? E quindi il bello dello sport: dai miracoli degli outsiders vincitori ai drammi del fallimento dei favoriti, dalle favole di fenomeni sbocciati col duro lavoro ai tristi epiloghi di carriera di chi sembrava un campione. Tutte cose che con le macchine non potremmo mai avere, prettamente legate alla parte più intima e personale dello sportivo: la propria mente, i propri pensieri.
Perciò fin da bambini siamo stati convinti del ruolo benefico della pratica sportiva sulla psiche di ciascuno. Niente di più vero, considerando i vari studi compiuti sulle endorfine prodotte durante l’attività fisica. Ma, si sa, chi pratica sport spesso ama lo sport, e nelle storie d’amore bisogna stare attenti a non degenerare. Questo aspetto viene troppo spesso sottovalutato nella formazione degli sportivi, giovani e non.
“Everyone is going through something” scrive Kevin Love, cestista NBA, su “The palyers tribune” parlando dei suoi attacchi di panico. “This depression get the best of me.” tweetta Demar DeRozan, collega di Love e autore di considerazioni sulla depressione molto discusse oltreoceano. Sono sfoghi di campioni che non hanno saputo porre dei limiti alla loro storia d’amore, lasciando che la loro passione diventasse la loro unica ragione di vita.
Sulla rivista accademica Frontiers si sottolinea “L’importanza di considerare sia gli aspetti positivi che quelli negativi dell’attività sportiva, in particolare se si fa affidamento sul successo nello sport per aumentare la propria autostima”. Il proprio ego quindi si rafforza solo in virtù della considerazione altrui della performance sportiva, portando ad un’ansia da prestazione sempre maggiore. Sia chiaro: non c’è nulla di più esaltante di una sana rivalità agonistica, che possa spingere al massimo delle proprie potenzialità, ma l’eccesso è dannoso. In più di un articolo, inoltre, si evidenzia come lo sport maschile sia molto più soggetto a questi episodi di quanto non lo sia quello femminile, a causa di stereotipi di genere che spesso non permettono agli uomini di sentirsi liberi di esprimere i propri disagi.
Si capisce, quindi, come e quanto questi casi di depressione siano legati all’ambiente in cui viene svolta attività fisica fin da piccoli: se in una squadra o in una società la componente agonistica non viene controllata, il rischio di divenire ossessionati dal risultato è alto. E, checché ne scriva Kobe Bryant (scusa, maestro), un’ossessione non è mai positiva; è ciò che, tra le altre cose, può portare all’assunzione di sostanze dopanti, un tipo di truffa sportiva analizzato troppo superficialmente e che sarebbe invece da sradicare a partire dall’ambiente sportivo in generale, senza accanirsi sulla persona.
Tengo a sottolineare poi che queste dinamiche sono ritrovabili non solo negli sportivi di altissimo livello, che pure sono sottoposti a pressioni maggiori, ma anche tra gli amatori e i dilettanti. Non è un caso, infatti, che il doping dilettantistico sia in continua crescita, poiché lo sport si sta trasformando gradualmente in un mero esercizio di abilità fine a se stesse, volto solo a risultati traducibili in termini di popolarità e fama.
In conclusione, credo che per affrontare il problema della mental illness come merita si debba innanzitutto cercare di creare ambienti di gioco, lavoro e divertimento dove poter crescere senza incentrare tutto sul risultato.
- Riccardo Fasano
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