La mia esperienza di vita in Europa
Rimanere in un solo posto non mi è mai andato a genio, e sin dalle elementari avevo capito che non era così che avrei speso la mia vita. Infatti, quando tornai dal campo-scuola della quarta elementare, quello in Slovenia, annunciai a mia madre il mio desiderio di lasciare la terra natia con le parole: “Voglio andare in altri posti”. Mia madre non diede molto peso a quella mia affermazione: col senno di poi avrebbe dovuto, considerando che era solo l’inizio del mio non essere a “casa”. Perfino il termine "casa", più passa il tempo, più diventa astratto e confuso, so di dove sono (so de’ Roma sudde – *forte accento romano*), ma dove devo tornare per sentirmi sicura? Dove devo tornare per sentirmi protetta? Dov’è il mio rifugio?
A 12 anni, nell’estate tra la seconda e la terza media, mio padre mi venne a prendere a casa di mia madre e mi portò a fare una passeggiata in cui, in modo molto enigmatico, mi propose di andare ad una scuola internazionale, senza dirmi dove, senza dirmi perché, solo dicendomi che sarei dovuta andare a vivere con lui. Onestamente all’inizio ero molto titubante, l’idea di vivere con mio padre, la stessa persona con cui litigavo un giorno sì e l’altro pure, non mi sembrava geniale. Da aggiungere l’incertezza su dove mi sarei trovata, perché mio padre aveva fatto intuire che non sarebbe stato a Roma, forse persino non in Italia! Ero terrorizzata, ma una piccola idea iniziò a farsi spazio nella mia mente, avrei potuto finalmente imparare meglio l’inglese per poi viaggiare, andare a vivere da qualche altra parte. Erano desideri che nutrivo da tanto tempo, ma avrei dovuto lasciare la mia famiglia, la mia routine, i miei amici, la scuola… ODDIO e come funzionerà per l’esame di terza media?! Nonostante tutto, tutti i dubbi, tutte le paure, ero pronta, volevo andare, dovevo andare! A quel punto mio padre mi disse che sarei andata a vivere in Serbia. Avevo raramente sentito parlare di quel paese, ero ancora pronta a buttarmi in qualcosa di così nuovo e sconosciuto? Ovviamente! A quel punto c’era solo un problema: mia madre. Non era affatto convinta della mia decisione (e, col senno di poi, parte di me l’avrebbe ascoltata molto volentieri) e fece di tutto per farmi rimanere, cercando anche di riempirmi di timori ed insicurezze riguardo a quella terra così lontana, ma neanche troppo, e così diversa. Dopo tanti pianti, tante litigate e tante chiacchierate con amici di famiglia e parenti vari, affinché potessero mettere la pulce nell’orecchio di mia madre, ero pronta a partire. Tutta l'emozione sembrò svanire in fretta, o forse venne solo sovrastata da un'incredibile paura ed una lancinante tristezza.
Settembre 2013, sono in Serbia e finalmente vado a vedere la British International School of Belgrade, una palazzina, probabilmente creata idealmente come villetta, trasformata in una scuola. Sono estasiata e terrorizzata, pronta a lanciarmi in questa esperienza, nonostante l’anno scolastico sia già iniziato da due settimane. Dopo aver brevemente parlato con la preside vengo portata nella classe di inglese, insieme alle persone con cui avrei speso il resto del mio anno. Dopo l’appello, vengo “affidata” per la settimana ad una ragazza di nome Milica, e tutta la classe, composta da circa 12-13 persone mi sommerge di domande sul mio passato mentre io, con il mio inglese abbastanza limitato, provo a rispondere a tutti. Dopo quella giornata mi resi conto che i gruppi erano già ben delineati, serbi con i serbi, e chi è cresciuto in Serbia, e stranieri con gli stranieri, l'esigua quantità di gente con cui poter interagire e le mie capacità troppo ridotte in inglese resero quella settimana un inferno, mi sentivo così stretta e sola in quel posto.
Non andai a scuola né giovedì né venerdì. Un’avvolgente tristezza aveva preso il sopravvento ed ero così destabilizzata che iniziai a stare male anche fisicamente. Purtroppo, continuò così per tutta la durata dell’anno scolastico tra un malanno e l’altro.
Dopo circa due mesi, quella che era semplice solitudine si trasformò in paura di andare a scuola. Uno dei miei compagni di classe iniziò ad incitare gli altri nel rendere quella divisione ancora più palese facendo commenti scomodi e parlandoci contro in serbo, e quando ci parlava in inglese erano per lo più frasi denigratorie, non si incentravano tanto sul nostro paese d’origine, quanto sull’assenza di discendenza serba, evidenziando come questo ci rendesse sbagliati. Gli altri non si univano, ma guardavano da fuori come spettatori assenti e per nulla mossi e coinvolti dalla situazione. Questo, sfortunatamente, non fu un problema che durò poco tempo, ma che si estese per tutta la durata dell’anno scolastico, rendendo le mie assenze, e uscite anticipate, sempre più frequenti. La tristezza e il terrore regnavano, quindi, sovrane sulla mia vita, a tal punto che il mio corpo iniziò a sviluppare una reazione allergica alla salsa che si trovava nel panino che mangiavo ogni giorno e, praticamente, in quasi tutte le ricette tipiche della cucina della zona.
La mia esperienza di vita all’estero è sempre stata diversa da quella tradizionale, perché io sono andata con mio padre, mentre parte della mia famiglia era ancora a Roma, e quindi tornavo in Italia con una certa regolarità. Ogni due mesi ero casa, più o meno, e ogni volta il pensiero di tornare nel mio nuovo paese mi terrorizzava, mi rattristiva e mi stordiva. Gli ultimi giorni in Italia, prima di ripartire, sono confusi nella mia memoria, offuscati da lacrime, una necessità di rimanere dov’ero e la paura di tornare a quella routine colma di dolore.
Ricordo molto bene gli ultimi due mesi passati in Serbia, perché feci pace con me stessa e col fatto che ormai ero lì e questa esperienza stava volgendo al termine, così mi concentrai sul fare tesoro di ogni momento, che, per quanto triste e doloroso, era mio e mi avrebbe aiutata. Non so come io sia arrivata a quella conclusione, ma penso fare amicizia con Haya, una ragazza siriana, di indole dolce e leggermente pazza, mi ha sicuramente aiutato ad andare a scuola più frequentemente. Un’altra questione molto pressante in quel periodo era come avrei dovuto fare per l’esame di terza media, con tutte le chiamate interminabili di mia madre in cui mi spiegava le varie opzioni a mia disposizione. Ricordo chiaramente tutte le amicizie che feci con le ragazze ed i ragazzi delle due classi inferiori alle mie. Ricordo l’ansia per gli esami, tutto lo studio di preparazione e che poi, il giorno stesso, mi accorsi di sapere abbastanza, nonostante continuassi a non capire il 90% delle parole nell’esame di scienze naturali. Ricordo l’uscita che feci con alcuni compagni di classe, in cui ero l’ospite d’onore, andammo a vedere il nuovissimo film degli X-Men, e mi portarono a vedere tutti i luoghi necessari da conoscere per ogni persona che aveva vissuto a Belgrado.
Ricordo bene il giorno che me ne sono andata. Il 30 maggio andai a scuola sapendo che era il mio ultimo giorno, da loro l'anno scolastico finiva molto in là nel mese di giugno, la mia amica Haya era stravolta, io ero molto triste. Finalmente non me ne volevo andare ed era giunto il momento di partire. Devo ammettere che, però, ero molto eccitata all’idea di mangiare cibo italiano fatto per bene. Arrivata all’aeroporto di Roma, la prima cosa che dissi a mia madre fu: “Non ti aspettare che io resti qui”: diciamo che ho vissuto all’altezza di tale aspettativa.
The first farewell to Italy
My experience living in Europe
Staying in one place never fit me, and since primary school I knew that that was not how I was going to spend my life. It was when I returned from my fourth-grade school trip in Slovenia, that I announced to my mother the desire to leave the homeland with the words: "I want to go to other places". My mother didn't give much weight to that statement, in hindsight she should have, considering it was just the beginning of my absence from home. Even the termine 'home', the more time passes, the more abstract and fuzzy it becomes, I know where I come from (Rome), but where do I have to go to feel safe? Where do I need to go to feel protected? Where's my safe house?
At the age of 12, in the summer between the eight and ninth grade, my father came to pick me up from my mother's house and took me for a stroll and throughout it, in a very enigmatic way, he proposed me to go to an international school, without telling me where, without telling me why, just telling me that I had to go and live with him. Honestly, at first, I was very hesitant, the idea of living with my father, the same person I quarreled with on such regular basis, did not seem brilliant. Adding on to that there was the uncertainty about where I would be, because my father had made it clear that it would have not been in Rome, maybe not even in Italy! I was terrified, but a little idea started to make room in my mind, I could finally learn English better, then travel, live somewhere else. They were all wishes I had for so long, but I should had to leave my family, my routine, my friends, the school... OH GOSH and how will it work for the ninth grade exam?! Despite everything, all the doubts, all the fears, I was ready, I wanted to go, I had to go! At that point my father told me that I would go to live in Serbia. I had barely heard of that country, was I still so ready to throw myself into something so new and unknown? Obviously! At that point there was only one problem: my mother. She was not at all convinced of my decision, in hindsight part of me would have listened more attentively, and she did everything to make me stay, also trying to fill me with fears and insecurities about that land so far away, but not too much, and so different. After so many cries, so many quarrels and so many chats with family friends and various relatives, so that they could put the bee in my mother's bonnet, I was ready to go. All the emotion seemed to fade quickly, or perhaps it was just overwhelmed by an incredible fear and excruciating sadness.
September 2013, I'm in Serbia and I finally go to see the British International School of Belgrade, a building, probably created for housing and turned into a school, I'm ecstatic and terrified, ready to dive into this experience, despite the fact that the school year has already started two weeks ago. After briefly talking to the headmistress, I am taken to the English class, where I meet the people with whom I would spend the rest of my year. After registration, I am given a “peer-mentor” for the week, a girl named Milica (e.d. pronounced Miliza), and the whole class, consisting of about 12-13 people, overwhelmed me with questions about my past and I, with my quite limited English, try to answer all of them. After that day I realized that the groups were already well clear, Serbs with Serbs, and those who grew up in Serbia, and foreigners with foreigners, the amount of people with whom to interact and my terrible English made that week hell, I felt so tight and alone in that place.
I didn't go to school on Thursday nor Friday. An overwhelming sadness had taken control and I was so destabilized that I began to feel physically ill. Unfortunately, that went on all throughout the year.
After about two months, what was simple loneliness turned into fear of going to school. One of my classmates began to incite others to make the division between Serbs and not-Serbs more obvious. He started making inappropriate comments and speaking to us in Serbian, and when he spoke to us in English they were mostly derogatory remarks, he did not focus as much on our country of origin, as much as on the absence of Serbian origin, and highlighting how this made us wrong. The others did not join in, but looked from the outside as numb spectators, not at all moved or involved in the situation. This, unfortunately, was not an isolated incident, but rather one that lasted throughout the entirety of the school year, making my absences, and early leaves, more and more frequent, sadness and terror reigned supreme on my life, so much so that my body began to develop an allergic reaction to the sauce that was in the sandwich that I ate every day and, practically, in almost all the typical recipes of the cuisine of the area.
My experience abroad has always been different from the traditional one, because I left with my father, and part of my family was still in Rome, so I returned to Italy quite regularly. Every two months or so I was home, and every time I was home, surrounded by so much love and so many friends, the thought of returning to my new country terrified me, saddened me and stunned me. The last few days in Italy, before leaving, are confused in my memory, overshadowed by tears, a need to stay where I was and the fear of returning to that routine full of pain.
I remember very well the last two months I spent in Serbia, because I made peace with myself and with the fact that I was there now and that experience was coming to an end, so I focused on making the most of every moment, which, however sad and painful, was mine and it would have helped me. I'm not exactly sure how I came to that conclusion, but I think making friends with Haya, a sweet, slightly crazy Syrian girl, definitely helped me go to school more frequently. (Haya is the only person I meet in Serbia that I regularly talk to.) Another very pressing issue at that time was how I would have sat my ninth-grade exam, that came with my mother's endless calls explaining to me the various options available to me. I clearly recall all the friendships I made with the girls and boys of the lower classes. I remember the panting for the exams, the whole preparation study and then, on the day, I realized that I knew enough, even though I still did not understand 90% of the words in the natural sciences exam. I remember the outing I did with some classmates, where I was the guest of honor, we went to see the brand-new X-Men movie, and I was taken to see all the places that every person who lives in Belgrade must know.
I remember the day I left. On 30 May I went to the school knowing that it was my last day, for them the school year ended very late in June, my friend Haya was upset, I was very sad. I finally didn't want to leave, and it was time to go. I must admit that, however, I was very excited at the idea of eating proper Italian food. When I arrived at Rome airport, the first thing I said to my mother was, "Don't expect me to stay here," and let's say I lived up to that expectation.
- Lucilla Luprano
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