Il 10 novembre del 1946 Herman Hesse non si presenta alla cerimonia per la consegna del suo premio Nobel, presentando una lettera di scuse in cui motiva la sua assenza sottolineando la sua fragile condizione di salute, mentre invece a moglie e amici confiderà la sua avversione nei confronti di quella “baldoria” e del clamore che negli ultimi tempi gli toccava sopportare.
Non a caso oggi si possiedono solo una manciata di fotogrammi che lo ritraggono e qualche secondo di registrazione della sua voce, mentre si hanno numerose foto in cui risaltano il viso scavato, gli occhi scrutatori dietro gli occhiali alla Potter e le mani ossute.
Sebbene Hesse non amasse mostrarsi di persona al grande pubblico, tendeva, nelle sue produzioni, a mostrare qualcosa che apparteneva a lui come poteva appartenere universalmente a chiunque altro, ovvero la propria esperienza da Uomo.
Questa tensione verso il raccontare che cosa siamo effettivamente gli proveniva, molto probabilmente, dal viaggio in Oriente intrapreso nel 1911, per soddisfare quel famoso bisogno ancora oggi riesumato nel “ritrovare se stessi”, e concluso un anno dopo, prima di raggiungere l’India.
Da qui inizierà un percorso per Hesse, tra depressione e crisi, in cui l’indagine su di sé e sulla vera essenza umana lo porterà a scrivere nel ‘27 “Il Lupo della Steppa” e poi nel ‘30 “Narciso e Boccadoro”, due romanzi che sintetizzano la visione dualistica/pluralistica che Hesse ha dell’animo umano.
Infatti, ne “Il Lupo della steppa” Hesse descrive un uomo, Harry Haller, nonché suo alter ego, giunto alla soglia dei 50 anni, che, infelice della sua vita, vuole uccidersi.
Tuttavia la vera questione del romanzo, molto attuale, è: chi siamo?
Harry, per giustificare la sua infelicità, dice di essere il “lupo della steppa”: pur sempre un uomo, indottrinato dalla società, ma con uno spirito animalesco e selvaggio, quello del lupo. Egli però non capisce che la sua infelicità è data dal suo limitarsi alle due sole dimensioni di uomo e di lupo, mentre la sua natura è molto più varia e pluralizzata.
A questo punto sarà una “femme fatal” al contrario che gli permetterà di dire, nel teatro metaforico della vita in cui fa da protagonista uno specchio, che “come corpo ognuno è singolo, come anima mai”.
Successivamente, in “Narciso e Boccadoro”, Hesse racconta la vita di Boccadoro, un giovane studente che, per il desiderio di conoscere e fare esperienze di vita, abbandona il collegio, e del suo insegnante Narciso, austero e dedito all’ascesi. I due rappresentano uno il Corpo e l’altro lo Spirito. Essi convivono: l’uno insegna all’altro; poi uno prevale e si distacca; infine uno cadrà, e ne rimarrà solo un forte ricordo.
Uno dei tanti significati che si possono ricavare è infatti il rapporto e il conflitto tra il corpo, che ci tiene qui, mosso dai desideri, dai piaceri e dall’istinto primitivo, e lo spirito, l’elemento che ci eleva.
Uno disturba l’altro, e questa è la vita. Possiamo dirci singoli nel corpo ma con un’anima di infinite sembianze con le parole de “Il Lupo della steppa”, oppure divisi nella lotta di platonica memoria tra corpo e anima con le vite di "Narciso e Boccadoro", ma dobbiamo vivere la nostra vita, il nostro essere qualcosa di infinito, e ridere di noi stessi proprio per vivere meglio questo conflitto.
- Francesco Sbaffo
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